Chiamateli pure pazzi, ma i pazzi siamo noi
Una riflessione nata in seguito al tragico incidente in A4 che parla di lentezze burocratiche, negligenze, abbandono e sofferenza. E che coinvolge i tanti che hanno a che fare con la malattia mentale
“Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole”.
Il matto di De Andrè. Musicato da un testo di Edgar Lee Master, tradotto da Fernanda Pivano. Tre poeti.
Un matto. Ne ha scritto Mario Tobino ne Le libere donne di Magliano; ne ha parlato Alda Merini nelle sue poesie. Ne avevano già parlato loro. Voi potevate evitare. Noi possiamo evitare. Ne ha parlato Gibran, Virginia Woolf, Neruda e chissà quanti altri che non conosco. Noi, davvero, lasciamo stare. (foto Pexel)
Perché loro parlavano di anime. E non è da tutti. Loro parlavano di sofferenza, di intimità, difficoltà; parlavano di storie, di vite, di disagio. Parlavano di persone. Penso a tutte queste cose dopo aver letto i vari commenti che si sono susseguiti sui social in seguito all’articolo che riporta la notizia del tragico incidente avvenuto al casello autostradale di Milano, in cui sono rimaste coinvolte due vite innocenti. Capisco la rabbia. La condivido. La sento esplodere e mi spaventa. Perché la rabbia è l’unica emozione possibile davanti a situazioni come questa, ma, mi pare, non sia chiaro verso dove o verso chi sfogarla.
Anche io sono arrabbiata. Perché questa era una tragedia evitabile, come tante altre. Le malattie psichiatriche esistono e fanno paura proprio perché, chi ne è colpito, può diventare pericoloso. E fanno paura perché nessuno ne parla, nessuno le affronta, nessuno le cura. Nessuno fa luce sul vuoto legislativo, burocratico e sanitario che ha risucchiato questi malati e le loro famiglie. Nessuno si chiede perché. Li abbiamo visti tutti, con i nostri occhi, questi personaggi andare in giro per la città, magari ne abbiamo riso, ne abbiamo parlato, ne abbiamo avuto timore e ci siamo allontanati.
Ricordo bene una di loro. Mi ricordo di essere stata una ragazzina stupida e viziata; di aver riso quando, dopo essere stata provocata, cominciava a gridare, a mostrare il seno, a cantare Generale. Mi ricordo di essere scappata un pomeriggio quando, alla fermata del pullman, mi aveva accusata di averle rubato la collana. Per un attimo non mi prendevo uno schiaffone. E ricordo che ridacchiavano tutti. Però ricordo anche la tristezza di quegli occhi. Quel male pazzesco che le usciva dalla voce. Lei non era un pagliaccio messo lì per farci ridere e per movimentare le nostre serate. Non una maschera, come Pulcinella. Non era lì per farci divertire, né per farci paura.
Io mi chiedo perché siamo tanto bravi a scrivere un commento cattivo dietro una tastiera, siamo sempre sull’attenti quando si tratta di vomitare un po’ di odio verso qualcuno, tutti gendarmi dell’ordine pubblico quando succede una tragedia, ma non riusciamo o non vogliamo comprendere che sono le amministrazioni locali, provinciali, regionali, statali, che devono intervenire e garantire l’assistenza adeguata per queste persone che non hanno alcuna colpa, ma portano lo stigma della pazzia, l’incapacità patologica di relazionarsi con la nostra realtà. Ci siamo mai chiesti cosa accade dentro di loro, cosa accade alle loro famiglie, che sapore ha quel dolore di non poter aiutare un fratello, una madre, un figlio, uno zio, un amico che non è più in grado di prendersi cura di se stesso, la cui malattia rischia di sfociare in violenza verso se stessi o verso gli altri, per poi venir accusati da persone sconosciute di essere dei delinquenti, dei ladri, depressi, assassini, drogati? La feccia, così qualcuno ha scritto.
Le malattie mentali esistono, ci sono sempre state e sempre ci saranno. Sono in aumento, pare. Ma queste patologie non vengono curate. Chi ne è colpito non è in grado di richiedere assistenza e, se lo fa la famiglia, spesso le richieste cadono nel vuoto. Ci si sente dire che, finché il malato non compie un gesto estremo, allora non si può intervenire. Ma avete mai visto un medico negare una terapia a un malato oncologico? Avete mai visto un infermiere non soccorrere un disabile? Un pediatra rifiutare assistenza a un bambino malato?
E avete mai visto un malato di cancro deriso in piazza?
La legge Basaglia aveva lo scopo di chiudere i manicomi e di rinnovare e modernizzare l’assistenza psichiatrica, non di negare l’esistenza dei malati, di cucirli in un oblio, di relegarli ai margini di una società. Quella legge voleva ridare dignità e diritti ai pazienti, non gettarli nella spazzatura dell’opinione pubblica. Non bisogna rinchiuderli e buttare via la chiave; dobbiamo collaborare tutti, smettere di vergognarci, provare a comprendere e pretendere l’assistenza adeguata.
Mi capita spesso di parlare con persone che affrontano questo problema in famiglia: esistono storie di incredibile dolore, che non vengono portate alla luce del sole perché, purtroppo, nel 2023 ci si imbarazza ancora ad ammettere di avere un familiare affetto da una malattia invisibile. Non è facile parlarne, perché ci si sente giudicati. E allora ci si nasconde, ci si isola, ci si gira dall’altra parte. Si chiede aiuto ai professionisti, ma le risposte sono inadeguate, lente, inefficienti. E allora succede che ci si chiude in casa, spesso con il malato, di cui si ha paura perché la psiche, quando non funziona, è imprevedibile.
Io sono stufa di questa lentezza, di questa inefficienza, di questa incapacità di empatia e sensibilità. Sono stufa di queste vittime, malati e non, di cui si continua a leggere sul giornale, ma per le quali non si fa nulla. Stufa di questa umanità che non si sforza di essere unita.
Chiamateli pure pazzi, squilibrati; chiamateli come volete, ma ricordatevi che sono malati e che se, in stato di abbandono, commettono atti violenti, la responsabilità è di tutti. Di chi non denuncia, di chi prende in giro, di chi non assiste, di chi si limita a prescrivere farmaci, di chi si volta, di chi non interviene, di chi si aggrappa ai fili di una burocrazia inefficiente. È responsabilità di tutti.
Chiamateli pure pazzi, ma i pazzi, con l’aggravante della sanità mentale, siamo noi.
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