La fondazione Novae Terrae ricorda Attanasio: “Prima di morire ha salvato la vita di una donna”
La testimonianza di Emanuele Fusi, presidente della fondazione saronnese Novae Terrae, grande amico dell'ambasciatore italiano ucciso in un agguato in Congo, insieme al carabinieri Vittorio Iacovacci
Questa mattina si sono svolti i funerali di Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano in Congo ucciso a Goma nel corso di un conflitto a fuoco dopo un tentativo di rapimento mentre viaggiava a bordo di un convoglio dell’Onu. Insieme a lui hanno perso la vita il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.
Il saronnese Emanuele Fusi, presidente della Fondazione Novae Terrae, conosceva benissimo Attanasio e dopo il funerale ha deciso di raccontarci qual era il suo rapporto con lui. Fusi, tramite la sua fondazione, ha partecipato a diverse iniziative umanitarie in Congo insieme all’ambasciatore. Una conoscenza che è iniziata 15 anni fa a Berna, quando Attanasio era un giovanissimo diplomatico e l’ultima volta che l’ha visto è stato 15 giorni fa a Kinshasa, la capitale del Congo.
«Ero con lui fino a 15 giorni fa a Kinshasa, ho dormito a casa sua. Luca era un ottimo diplomatico e non un ragazzino sprovveduto che andava in giro senza scorta, come qualcuno l’ha fatto passare. Parliamo di un grandissimo professionista con un grande cuore. Voleva aiutare l’Africa affinchè si affrancasse dall’Occidente, credeva che gli africani potessero gestire le proprie ricchezze. Credeva moltissimo nel futuro dell’Africa autonoma. Conoscevo bene anche il carabiniere Vittorio Iacovacci. Anche lui era una persona straordinaria che si occupava di opere di bene».
Come vi siete conosciuti?
«L’ho conosciuto a Berna 15 anni fa all’Oms. Da allora è nata una vera amicizia. Siamo stati insieme in diversi viaggi in Africa e oltre che un bravo ragazzo era una mente brillante, un diplomatico di grande livello. Dedicava il suo tempo libero per opere umanitarie, al posto di giocare a golf nei club esclusivi e super-blindati come fanno molti altri diplomatici».
Si è fatto un’idea di cosa sia successo?
«Luca era attentissimo alla sua sicurezza personale. A Kinshasa aveva l’auto blindata, ponti radio e carabinieri di scorta. A Goma ci avrebbero dovuto pensare quelli dell’Onu. Se gli avessero messo a disposizione una delle centinaia di macchine blindate dell’Onu non sarebbe successo nulla. Hanno un budget di 1 miliardo all’anno e non avevano una macchina per lui. Da quanto è emerso è stato vittima di fuoco amico da parte dei rangers che erano intervenuti per liberarlo dai suoi rapitori»
Il Congo è uno degli stati chiave dell’Africa per quanto riguarda le materie prime. Quello di Attanasio non era un incarico qualunque.
«Il Congo è al centro di enormi interessi non solo per i diamanti ma anche e soprattutto per il coltan, materia prima per la realizzazione degli schermi per gli smartphone. Il nord Kiwu, dove è avvenuto l’attacco, è l’inferno in terra, li si concentrano le miniere di coltan. Era lì per fare il suo lavoro e verificare che i nostri soldi per il programma alimentare mondiale, fossero spesi bene».
Avete portato avanti alcune iniziative umanitarie insieme. Quali?
«Lavorava moltissimo con la nostra fondazione. Era il nostro referente per le raccolte fondi che consegnava a Mama Sofia. Il primo progetto insieme è stato quello di costruire e mettere in funzione un’ambulanza di strada per soccorrere le migliaia di bambini abbandonati a Kinshasa. L’ambulanza opera di notte negli slum per portare soccorso a questi bambini che vivono sin dalla nascita senza un tetto. Il progetto è stato realizzato insieme a Don Maurizio Canclini di Leggiuno. Solo una settimana fa, poi, eravamo riusciti a recuperare un medicinale salva-vita rarissimo tramite una multinazionale sud-coreana, grazie ad alcune amicizie nell’ambiente, e lui ci aveva inviato le foto della consegna: prima di perdere la sua vita l’ha salvata ad una donna congolese».
Non solo: da gennaio lui e la moglie avevano coinvolto la moglie del presidente del Congo per attrezzare una enorme chiatta con un container ospedale sul fiume per raggiungere i villaggi, altrimenti irraggiungibili via terra. Aveva anche una grande passione per l’arte africana: «Aveva un’enorme collezione di arte africana salvata dalla distruzione. Speriamo di poterla portare in Italia»
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