Rivendevano strumenti di terapia intensiva dell’ospedale di Saronno, arrestati
In manette una cinquantanovenne dirigente dell'area logistica della farmacia dell’ospedale di Saronno e un imprenditore di Barlassina, in Brianza
È accusata di aver gonfiato gli ordinativi di dotazioni per intubare i pazienti per poi farli sparire e consegnarli a un imprenditore che li ha reimmessi sul mercato: è così finita in manette all’alba una cinquantanovenne dirigente dell’area logistica della farmacia dell’ospedale di Saronno e un imprenditore di 10 anni più giovane di Barlassina, in provincia di Monza e Brianza.
I reati contestati sono peculato in concorso e per l’imprenditore anche autoriciclaggio: questa mattina (venerdì 5 giugno) carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Varese e militari della Finanza di Saronno hanno eseguito le due misure di custodia cautelare richieste dalla Procura di Busto Arsizio e concesse dal gip.
Le indagini sono partite nell’autunno scorso dopo la segnalazione di un quadro dirigenziale responsabile delle farmacie ospedaliere della Asst Valle Olona che aveva rilevato una serie di ordinativi anomali partiti dall’ospedale di Saronno a firma della dirigente indagata.
IL COMMENTO DELL’ASST VALLE OLONA
Grazie alle investigazioni è stato possibile ricostruire i passi dei due indagati: la dottoressa, una cinquantanovenne dirigente dell’area logistica della farmacia dell’ospedale di Saronno faceva comparire gli ordini come necessari per l’ospedale per poi consegnarli dentro a scatoloni all’imprenditore che li rivendeva ad altri ospedali.
Secondo le indagini, l’indagata riusciva ad operare in modo incontrastato grazie alla discrezionalità di cui godeva in ragione dell’incarico, che le consentiva di disporre liberamente dei fondi dell’Ospedale di Saronno per acquistare materiale sanitario (lame e batterie per laringoscopio) eccedente le necessità della struttura ospedaliera, al fine di consegnarlo al suo complice. Quest’ultimo, ricevuto il materiale all’esterno dell’ospedale – i servizi di pedinamento hanno accertato che la dottoressa riconsegnava all’imprenditore i dispositivi medicali, dopo averli opportunamente travasati in scatoloni “anonimi” – lo rivendeva attraverso la propria società con regolare fattura, così da reintrodurre nel circuito “legale” i beni in questione, provento del delitto di peculato.
Un’attività che secondo gli investigatori è proseguita anche durante i mesi all’emergenza sanitaria: le lame e le batterie per i laringoscopi, infatti, destinate al funzionamento di apparati indispensabili per intubare i pazienti, in alcune occasioni non venivano deliberatamente consegnate ai reparti di anestesia che ne avevano necessità, per essere invece restituite al titolare dell’azienda fornitrice che le rivendeva lucrando indebiti profitti da spartire con la donna.
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