Dalla casa di riposo a casa: “Ho contagiato mia figlia, ora lei è in ospedale”
"Scusi se mi sfogo": le telefonate di chi lavora nelle case di riposo, in questi giorni, sono così. Decine di persone sono in isolamento e senza neppure la speranza di poter avere un tampone
«Sono andata al lavoro per aiutare altre persone, non ho saputo proteggere mia figlia». Chiara – nome di fantasia – è una Operatrice socio-sanitaria di una casa di riposo di Gallarate.
Abita in un Comune vicino, dal 5 aprile è in isolamento per sintomi da Coronavirus e quattro giorni fa sua figlia è stata ricoverata in ospedale: contagiata anche lei dal Covid-19, come certificato da tampone (la foto è d’archivio).
«Scusi se mi sfogo». Le telefonate di chi lavora nelle case di riposo, in questi giorni, sono così. Uno sfogo rabbioso nel primo minuto, poi stanco, infine detto con pudore, quasi come fosse una colpa non sapere con chi parlare.
Decine di operatori (Oss, infermieri) sono a casa dal lavoro: anche se presentano i sintomi non hanno alcuna certezza. Vivono nel dubbio e, soprattutto, nel terrore di essere a loro volta veicolo di contagio. Dopo aver chiamato medici e Ats, sanno che oggi non sono la priorità, nella lista di chi può essere sottoposto a tampone. «Io sono a casa da tre settimane: ora fanno i test ai miei colleghi ancora al lavoro, noi è come se non esistessimo. Ma come posso resistere senza sapere se sono positiva o meno?», ci racconta un’altra addetta di una casa di riposo del Gallaratese.
Alcuni hanno qualche sintomo, altri quasi la certezza. «Io ho avuto i primi sintomi al 5 aprile, due giorni dopo ho perso l’olfatto e il gusto» ci racconta Chiara. «Ho chiesto a tutti i numeri, ad Ats, al medico, per avere un tampone, ma ancora non mi è stato fatto. Al 13 di aprile mia figlia di 12 anni è finita in ospedale a Busto Arsizio, è risultata positiva. Il mio compagno – asintomatico – è lì con lei, ma ancora non gli hanno fatto un tampone. Ho un’altra figlia, disabile, che è andata a vivere con suo padre, perché non dovevamo esporla. Ho tentato in tutti i modi, ho chiamato chiunque».
«Viviamo in un bilocale, abbiamo un solo bagno: da quando ho i sintomi io sono andata a dormire sul divano, ma la sala è insieme alla cucina, se doveva prendere l’acqua mia figlia veniva in cucina, se avevo bisogno di cambiarmi dovevo entrare in bagno. Come ci si può isolare?».
In questa epidemia c’è anche un aspetto di classe sociale: un conto è avere una villetta, un conto la casa di corte; un conto vivere in una casa grande, un conto essere confinati in un appartamento. «Vivo in una casa di corte, non abbiamo neppure due bagni distinti» ci dice Paola (sempre un nome di fantasia), anche lei preoccupata per i giorni che sta vivendo. «Scusi se glielo dico, non so più a chi dirlo».
Mentre nelle case di riposo si cercano tamponi per gli ospiti e laboratori che possano analizzarli, mentre chi è al lavoro può sperare nello screening (almeno quello che rileva gli anticorpi), chi è a casa vive nell’isolamento totale. «Siamo in malattia: non viene neppure riconosciuto come infortunio, perché non abbiamo tampone. Se mi succedesse qualcosa, non tutelerei neppure il futuro della mia famiglia». L’angoscia di tutti è anche per i propri famigliari: «In televisione e sui social ci chiamano angeli, ma per la nostra famiglia non siamo angeli: siamo una minaccia».
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