Albert Camus, un rompiscatole contro i nazionalismi
Il 4 gennaio 1960 fa moriva Albert Camus: la vita e il pensiero dell'intellettuale franco algerino hanno però ancora molto da dire. Le parole del filosofo Valerio Crugnola
Il 4 gennaio 1960 fa moriva Albert Camus: la vita e il pensiero dell’intellettuale franco algerino hanno però ancora molto da dire. Le parole del filosofo varesino Valerio Crugnola
Il 4 gennaio 1960 fa moriva Albert Camus, un intellettuale che fu annoverato tra i grandi del ‘900 mentre era in vita, e che ha poi potuto resistere alla prova del tempo.
Camus fu un maestro non pretenzioso, non immodesto, sottotono, mai con la presunzione del pulpito del prete: non fu un maître à penser, come si usava dire allora per quei filosofi francesi che volevano a tutti i costi poter dire sempre la loro parola sul mondo e timbrare con il proprio marchio ogni manifestazione della cultura.
Anche se incompiuto (la morte lo colse tragicamente a 47 anni), Camus resta un grande scrittore, un pensatore del massimo interesse e una figura che, almeno come postura intellettuale e comportamenti pubblici, può ancora essere una fonte di ispirazione.
Non è questo lo spazio per ricostruire e valutare l’opera letteraria e l’azione pubblica di Camus. Mi limiterò a estrarre, con la metafora della musica, due “accordi” da un “tema” che Camus ha svolto qua e là in qualche sua “composizione”.
Il primo accordo riguarda un passaggio di una sua intervista che possiamo interpretare oggi come suo manifesto politico e testamento esistenziale. «Visto che poche epoche richiedono come la nostra che ci si faccia eguali al meglio come al peggio, mi piacerebbe non eludere nulla e conservare intatta una doppia memoria. Sì, c’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Per quanto difficile possa essere, vorrei essere fedele all’una e agli altri».
In Camus l’esistenza umana non ha senso di per sé. Il pensiero deve liberarsi dall’ossessione del senso proprio del pensiero teologico e metafisico. L’esistenza nella sua datità ci chiama però a scelte ineludibili ma mai assolute, mai subordinate a una metafisica della Storia e della Politica.
La datità occasionale della storia è un cammino riconoscibile nel tempo e nello spazio che ci è dato; e talvolta è un lascito, benché di ogni suo passaggio ci resti un segno flebile. A sua volta, il presente ci chiede di confrontarci, anche attraverso l’agire politico, con i problemi che, qui ed ora, in termini dati, un’epoca pone e che dobbiamo provare a risolvere, sia pure temporaneamente.
Il secondo accordo è una variazione del primo e concerne la complessità delle scelte. Camus nacque povero in Algeria in una famiglia francese che, con quel sapore di disprezzo che prendono in certi contesti le parole equivoche, i francesi chiamavano pieds-noirs e gli algerini coloni. Fu comunista in gioventù, combattè con i partigiani durante la guerra, divenne uno spirito libero e non dogmatico nel corso degli anni ’50. Conobbe di persona le ragioni e i torti dei vari soggetti che si combattevano nella “sporca guerra” d’Algeria.
Fu disprezzato dai francesi perché approvava l’indipendenza algerina, e dall’ala militante del Fronte di Liberazione Nazionale algerino che avrebbe poi condotto al regime dittatoriale di Boumedienne, che lo considerava, come privilegiato francese, un potenziale avversario (nel socialismo radicale dell’epoca, permeato di leninismo, i “compagni di strada” erano sempre destinati a diventare nemici una volta giunti al crocicchio).
Ma conobbe anche l’indifferenza dei generali francesi, talora veri e propri criminali di guerra, nel difendere con soluzioni ragionevoli e non violente i “coloni”, semplici lavoratori della terra e non certo nababbi sfruttatori: per i militari erano in gioco “la Grandeur et la Puissance de la France”, mica paglia!
E conobbe anche gli orrori della controparte, che combatteva per l’indipendenza con i medesimi mezzi terroristici e violenti impiegati dall’esercito francese e dalle organizzazioni di estrema destra, in primis dalla famigerata OAS. Temette per la democrazia francese e altresì per il futuro democratico dell’Algeria.
Morì prima di vedere la stentata via d’uscita che De Gaulle seppe trovare: una soluzione imperfetta in Francia dal punto di vista di una democrazia ideale; e una soluzione nel breve periodo catastrofica da parte algerina. Benché indipendente, l’Algeria passò dal dominio francese a un regime autoritario e monopolistico in mano a una casta di militari e resistenti legittimati dalla lotta di liberazione, ma non più dal loro agire successivo, e perciò ben presto divenuta inamovibile.
Camus fu, insomma, uno scassacabbasisi per tutti, al punto che qualche dietrologo vede lo zampino del KGB nell’incidente automobilistico in cui morì.
Mentre la classe dirigente francese si sporcava le mani umiliando gli algerini, i socialisti radicali algerini, come anche i comunisti francesi – integralisti staliniani come nemmeno Togliatti seppe essere –, offrivano in cambio un ipotetico e metafisico riscatto senza bellezza. Un milione di pieds-noirs rientrò in Francia nel 1962. Nel 1966 migliaia di ebrei furono indotti ad andarsene per salvarsi.
Allora, davanti al futuro di chi viveva alla fine degli anni ’50, erano forse più temibili i nazionalisti francesi, oppressori imbruttiti, che non i socialisti algerini, benché appesantiti dalla violenza rivoluzionaria e insensibili alle libertà e ai diritti se non di un’entità astratta, il Popolo Algerino.
I totalitarismi comunisti e le dittature ispirate (si fa per dire) ai socialismi illiberali, sono, per nostra fortuna, morti. Oggi invece l’insensibilità alle libertà e ai diritti rende più temibili i populisti poveri di bellezza e di senso dell’equità e della giustizia, che non quelle élites intellettuali e morali, e talora anche economiche, che almeno tutelano quel pochissimo che ci resta della bellezza.
Sono brutale, lo so, ma ho una grande paura dei populisti di qualunque fatta. Non ci sono populismi buoni e populisti cattivi. Gli anni tra i ’50 e i ‘70 sono lontani alcune ere geologiche. Ma l’oggi non è meno preoccupante. Come fare a preservare e a ricostruire bellezza entro un quadro di giustizia, anzitutto ambientale e sociale? Difficile dirlo, ma di una cosa sono certo. Dobbiamo uscire in fretta dall’ombra e dalle paludi malariche ai confini tra il già pensato e il non-pensiero.
Valerio Crugnola
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