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“I dazi non servono a nessuno”. Il caso Lu-Ve di Uboldo tra globalizzazione e nuove sfide americane

Il direttore generale Riccardo Quattrini racconta le incertezze sull'applicazione delle nuove tariffe USA e la strategia vincente della multinazionale: "Serve tempo, non barriere. Per essere veramente internazionali bisogna capire le culture locali"

Lu-Ve spa

«Fino ad ora è stato difficile capire. Ci sono poche informazioni e anche confuse. Stiamo cercando di venirne a capo con i nostri collaboratori negli Stati Uniti per capire come verranno applicati, che cosa accadrà nel rapporto con le dogane locali e quali saranno i costi. Una cosa è certa: dei dazi non ne avevamo assolutamente bisogno». A parlare è Riccardo Quattrini, direttore generale del Gruppo Lu-Ve, multinazionale di Uboldo (Varese) specializzata nella produzione di scambiatori di calore e di apparecchi ventilati per la refrigerazione. (nella foto sopra: Riccardo Quattrini)
Espressione del miglior capitalismo familiare italiano, il Gruppo Lu-Ve, che fa capo alle famiglie Liberali e Faggioli, è quotato su Euronext ed è considerato un’eccellenza della manifattura italiana.
Lu-Ve  è presente sui mercati principali e dal 2018 ha acquisito negli Usa, paese leader nel settore della refrigerazione e del condizionamento dell’aria, la Zyklus Heat Transfer Inc, società texana attiva nel settore della produzione e commercializzazione di scambiatori di calore.

Direttore, i dazi vi preoccupano?
«Al di là dello smarrimento per capire il meccanismo, non siamo molto preoccupati. A parte qualche materia prima che viene dal Sud America e dall’Asia, quello che oggi Lu-Ve vende negli Stati Uniti è prodotto lì da loro. Negli Usa abbiamo due macro business, le batterie statiche, che è una componentistica pura, e i ventilati che inizieremo a produrre già nei primi mesi del 2026, mettendoci al riparo da qualsiasi ulteriore dazio. Negli Stati Uniti, Lu-Ve sta espandendo la sua area di produzione per un totale di 30mila quadrati compresi i cinquemila originari».

Quanto è attrattivo il mercato Usa per le aziende europee?
«Non ci sono agevolazioni particolari, defiscalizzazioni, fondi o aiuti dal governo federale. Nulla di tutto questo. Di fondi a sostegno dell’impresa non ne ho visto uno. Un certo aiuto lo abbiamo avuto dalla contea locale, ma riguarda solo la facilità con cui si ottengono permessi e autorizzazioni. Inoltre negli Stati Uniti si fa una grande fatica a trovare personale specializzato che sappia fare questo lavoro o comunque cha abbia voglia di imparare il lavoro manuale. Mentre è molto più facile trovare manager».

Chi uscirà sconfitto e chi vincitore da questa manovra?
«Si faranno tutti male e nessuno ne uscirà vincitore. Oggi gli americani sono fortissimi sui servizi e sulla tecnologia, ma non nella manifattura. Se l’obiettivo di Trump è ricostruire quel tessuto manifatturiero interno, progressivamente delocalizzato nel recente passato, con picchi di uscita negli anni ’90, la strada giusta non sono i dazi. In quegli anni ho lavorato molto a lungo in Cina e ricordo che era piena di aziende statunitensi. E quando si è trattato di fare il cosiddetto inshoring, non hanno riportato le aziende negli Stati Uniti, ma hanno fatto un near shoring, cioè nel vicino Messico e sulla fascia di confine. Trump dovrebbe sapere che creare un sistema manifatturiero, con tutte le catene di fornitura annesse, non è per niente facile e soprattutto richiede molto tempo. Invece i dazi sono una misura che serve nel breve termine».

Lu-Ve negli ultimi vent’anni è cresciuta per acquisizioni. Avete investito in nuove unità produttive in Polonia, Cina e Russia. Avete acquisito aziende del settore nei mercati emergenti, come l’indiana Spyrotech, ma anche in mercati maturi, come quello americano. Oggi presidiate i principali mercati e siete tra i leader nel settore della produzione degli scambiatori di calore. Alla luce di quanto sta accadendo con i dazi, ritenete questa strategia vincente?
«La forza di Lu-Ve è proprio quella di presidiare più mercati. Noi stiamo andando verso un mondo non più globalizzato, ma regionalizzato e avere dei piani di produzione, vendita e servizio all’interno di quelle regioni è fondamentale per la crescita e la stabilità futura. Abbiamo messo le radici nei posti giusti dove ci sarà la maggior crescita mondiale, mentre l’Europa avrà tassi di crescita più bassi. I nostri fondamentali sono eccellenti. Quindi non non dobbiamo fare altro che continuare con questa strategia, migliorando sempre di più le nostre operazioni. Oggi l’80% circa del fatturato lo facciamo in Europa. Uno dei tanti obiettivi del mio mandato è quello di avere una ripartizione percentuale meno polarizzata tra Americhe, Europa, Middle East e Asia . Questo non vuol dire diminuire in Europa, ma aumentare di più in questi continenti».

È sufficiente esportare per poter dire di avere una mentalità internazionale?
«Non è sufficiente. Per sviluppare una mentalità internazionale, bisogna conoscere e avere volontà di capire le diverse culture di approdo per utilizzare al meglio le risorse. Non si può andare negli Usa, in India o in Cina con la testa italiana. Bisogna comprendere bene la cultura locale e utilizzarla come leva di crescita. In Lu-Ve si lavora molto su questi aspetti e devo riconoscere il grande percorso di umiltà fatto da Matteo Liberali (presidente e ceo, ndr) e Michele Faggioli (direttore operativo, ndr) che consapevoli di avere sviluppato al meglio l’azienda, rendendola internazionale, allo stesso tempo si sono resi conto che bisognava fare un altro gradino. Le mie deleghe dunque sono vere e con loro il confronto è continuo. Questo aspetto, sia dal punto di vista manageriale che umano, è da considerare straordinario a maggior ragione se parliamo del contesto industriale italiano».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it
Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.
Pubblicato il 09 Aprile 2025
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