Il gigante Cheyenne
Charlotte Gurnoe è scampata al massacro del Fiume Sand Creek, quello cantato da De André. Il figlio, "Taffy" Abel riscatterà il suo popolo: sarà il primo nativo a vincere la Stanley Cup e a portare la bandiera USA alle Olimpiadi

(d. f.) Episodio numero 11 della seconda stagione della rubrica di Marco Giannatiempo, curata dalla redazione sportiva di V2 Media/ VareseNews e dedicata alla cultura dell’hockey su ghiaccio. Una storia, questa, che ha le sue origini addirittura in quel massacro del Fiume Sand Creek magistralmente cantato da Fabrizio De André. Già, perché Clarence “Taffy” Abel discende da una delle poche sopravvissute alla tragedia. E lui, pellerossa, si riscattò grazie all’hockey.
“Alla balaustra” ha cadenza quindicinale e viene pubblicata il primo e terzo (ed eventualmente quinto) lunedì pomeriggio di ogni mese. Gli otto racconti della prima stagione e quelli della seconda sono disponibili in calce all’articolo.
Sulla contea di Kiowa, in Colorado splende un tiepido sole la mattina del 29 novembre 1864, è una giornata serena nell’accampamento Cheyenne, che si distende, con le sue circa 200 tende, lungo le sponde del fiume Sand Creek. Il villaggio ospita in tutto oltre 300 nativi americani anche se, in quel momento, ne sono presenti poco più di 200 tra donne, bambini e anziani. I giovani guerrieri invece non ci sono: loro sono a caccia sulla pista dei bisonti e torneranno solo a sera con il prezioso carico. Del resto non c’è bisogno di un presidio al villaggio, dato che nativi americani ed esercito statunitense hanno da poco stretto un accordo di pace che garantisce loro la protezione dello Stato.
Ma qualcosa non va quella mattina: la linea dell’orizzonte sembra tremare, come quei pomeriggi d’agosto in cui il sole crea l’effetto di riverbero sull’asfalto. Ma non si tratta di un’illusione ottica, è una vera e propria massa di cavalli, 675 per la precisione, che muovono verso l’accampamento montati da altrettanti soldati e guidati dal colonnello John Chivington, ex pastore metodista, con al suo fianco la bandiera a stelle e strisce garrisce al vento. Il villaggio Cheyenne è ormai a poche centinaia di metri e il resto è storia, una brutta storia, narrata magistralmente nella ballata “Fiume Sand Creek” di Fabrizio De André, che con note e parole racconta l’attacco brutale e indiscriminato che lascerà sul campo oltre 200 nativi americani, tra quelle donne, bambini e anziani. Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, disse a posteriori: «È forse l’atto più vile e ingiusto di tutta la storia americana».
A raccontare la terribile storia di questo eccidio, per cui nessuno fu mai processato, è Charlotte Gurnoe Abel, nativa americana della tribù degli Ojibwe (o volgarmente detti Chippewa), che in quel massacro persero molte vite. Ad ascoltarla invece è il figlio, Clarence John “Taffy” Abel, che ha solo 6 anni: lui è nato infatti a Sault Ste. Marie nel Michigan quasi quarant’anni dopo quel fatto, il 28 maggio 1900.
“Taffy” è un soprannome che deriva da un tipo di caramella morbida e gommosa simile al toffee, ma più elastica. Questo dolce, fatto con zucchero, burro e aromi vari, è il preferito di John, che arriva persino a nasconderlo in bocca prima di entrare a scuola, per eludere le perquisizioni di bidelli e insegnanti.
A Sault Ste. Marie l’hockey non era molto diffuso; c’era una sola pista all’aperto, ma soprattutto non c’era spazio per i “pellerossa”, come venivano chiamati allora. Alla pista del ghiaccio però lui ci lavora, fa il pulitore, un compito che all’epoca si svolgeva prevalentemente a mano. Ogni tanto sul ghiaccio ci pattina anche, l’allenatore della prima squadra lo nota e gli consente persino di organizzare un team, gli Sweepers, i pulitori appunto ed iscriversi in un campionato amatoriale. Lo vincono proprio grazie a Taffy, costretto a mentire sulle sue origini, perché deve dichiarare di essere bianco, altrimenti niente iscrizione al torneo.
Sta di fatto che qualcuno lo nota, e non solo per il fisico – lui è alto 1,85 m, pesa 102 kg – ma anche perché ha molta resistenza ed una visione di gioco spettacolare. Doti utilissime soprattutto in un hockey come quello di allora, molto diverso dall’attuale: niente caschi, protezioni inesistenti quindi i contrasti facevano molto male, passaggi in avanti proibiti. L’allenatore della prima squadra decide che – presunte origini genetiche a parte – quel giocatore lui lo vuole, e lo mette nella rosa. Certo farlo giocare con costanza non è semplice: quando il pellerossa entra sul ghiaccio dagli spalti si levano mormorii di disapprovazione. Tuttavia la realtà è evidente: quando lui non gioca, la squadra perde, mentre quando scende sul ghiaccio la situazione si capovolge, e quasi sempre porta alla vittoria. Alla fine, il posto da titolare se lo merita tutto.
John Abel è davvero forte e, in pochi anni, arriva in NHL con la maglia dei New York Rangers, per passare poi ai Chicago Blackhawks e, nella stagione 1929-30, riesce a portare la squadra ai playoff dopo anni di assenza. Nella partita di semifinale, contro i più forti Montreal Canadiens, Chicago perde, ma la gara entra nella storia come la più lunga della NHL giocata fino a quel momento, con quasi due ore di gioco totali. Tanto ma non tantissimo si potrebbe pensare, ma va tenuto conto di una cosa: in quel periodo i cambi non funzionavano come nell’hockey moderno, e Abel rimane sul ghiaccio per 60 minuti consecutivi senza sostituzioni, esclusi tre brevi periodi di penalità di 2 minuti. In realtà, il suo record di permanenza sul ghiaccio sarà persino maggiore: fino a 100 minuti di fila senza cambi.
La “cura Taffy” funziona: nel 1934 i Blackhawks vincono la Stanley Cup, e lui diventa il primo nativo americano a sollevarla. Abel diventa così uno dei giocatori americani più rappresentativi in uno sport fino ad allora dominato dal Canada.
Non sorprende, quindi, che fosse stato lui, nel 1924, il portabandiera degli Stati Uniti alle Olimpiadi invernali di Chamonix, in Francia. In quell’occasione, contribuì in maniera sostanziale alla conquista dell’argento da parte della nazionale statunitense, in un’edizione dominata dal Canada, capace di segnare 110 gol in appena cinque partite, subendone solo 3.
John Abel appende i pattini al chiodo dopo 16 stagioni di hockey giocato, disputando 333 partite nella NHL. Nel 1939, fonda i Sault Indians, probabilmente un omaggio alle sue origini di nativo americano, allenando la squadra per tre anni nella Northern Michigan Hockey League.
Una bella storia di riscatto contro le ingiustizie, quella di Abel, che sicuramente a quella brutta storia del fiume Sand Creek tornò a pensarci, ricordando anche la seconda parte del racconto. Quella che parlava di due ufficiali, il capitano Silas Soule ed il tenente Joseph Cramer che, a pochi passi dal villaggio, fermarono i propri uomini ordinando di abbassare i fucili di fronte ai nativi americani, non partecipando a quell’assurda mattanza, per poi testimoniare contro Chivington. Soule ci rimise la carriera, Cramer molto di più, visto che a volte opporsi alle ingiustizie costa addirittura una vita.
ALLA BALAUSTRA: PUNTATE PRECEDENTI
18. One eyed man
17. Ghiaccio e guerra fredda
16. Pinguini rossi
15. Galante e cattivo
14. Figli di una lega minore
13. La squadra senza avversari
12. Non è mai troppo tardi
11. Zamboni, il genio del ghiaccio
10. Senza maschera e senza paura
9. La Kraut Line va alla guerra
Prima stagione – Tutti gli articoli
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