Fondazione Comunitaria del Varesotto: la sfida del professor Visconti
A un mese dalla nomina, l'ex rettore della Liuc traccia la sua visione: rigore sui progetti, attenzione ai fini istituzionali e trasparenza assoluta per far crescere il territorio.
È passato un mese da quando Federico Visconti, ordinario di economia aziendale ed ex rettore della Università Liuc di Castellanza, è stato nominato presidente della Fondazione Comunitaria del Varesotto. Nella sede varesina al civico 6 di via Orrigoni, con lui c’è il segretario Massimiliano Pavanello:
«Sono contento che ci sia, in quanto conosce molto bene la macchina della fondazione. Io sto ancora imparando».
Visconti ha due caratteristiche che contraddistinguono la sua attività accademica: studia tanto e non sopporta che i progetti siano lasciati incompiuti. La messa a terra è il suo pallino. Del resto non ha mai nascosto la sua ammirazione per Marchionne.
Sulla sua scrivania in fondazione c’è già un faldone piuttosto corposo “Proposte progettuali”: «Come vede ho già iniziato a studiare sodo il terzo settore».
Professor
Visconti, lei si dovrà confrontare con un board quasi completamente rinnovato, otto consiglieri su undici sono nuovi. Può rappresentare un problema?
«No, perché noi vogliamo costruire un modello diverso rispetto al passato. Stiamo facendo un lavoro attento sui fini istituzionali. Dall’esperienza in Liuc, mi porterò una morbosa e maniacale attenzione al fine dell’istituzione. Quando ho iniziato a studiare il finalismo di impresa, si parlava del profitto e degli obiettivi competitivi, sociali ed economici. Qui è un esercizio totalmente diverso».
Qual è la prima domanda che si è posto una volta nominato?
«Me ne sono poste più d’una e su due grandi fronti. Mi sono chiesto quali siano i fini di una fondazione di comunità. È nella concezione di questo finalismo che bisogna promuovere la filantropia e gestire progetti di valore per investitori che lascino una traccia nel bilancio sociale della comunità. Non è un finalismo anarchico: noi vogliamo creare una rete tra attori diversi per far crescere un territorio e saper leggere i fenomeni sociali che ci sono per promuovere delle iniziative. Non dimentichiamo che noi siamo un’emanazione della Fondazione Cariplo, quindi un nome che ha una reputazione e una storia importante. Nel costruire questo finalismo, possiamo avere qualche margine di sana autonomia, che forse era quello con cui la stessa Cariplo ha voluto costruire le fondazioni nel 2002. Sarebbe però fuori luogo concepire un’autonomia allargata quando la gran parte delle risorse, un milione 700mila euro, arriva dalla Fondazione Cariplo».
Il modello di fondazione comunitaria, come è stato replicato, aveva già in sè il concetto di rete?
«Sì, ecco perché bisogna prestare attenzione ai fini istituzionali, se si vuole attingere
anche a risorse che in qualche modo possono arrivare da questa rete. E poi c’è un altro riferimento istituzionale ed è la Provincia di Varese, ente di secondo livello che nomina due consiglieri nella Fondazione. Questo mi permette di avere un riferimento istituzionale che è espressione dei comuni. Quindi dentro questo lavoro sul finalismo, c’è anche, come dire, un momento formativo e di reciproco aiuto».
Qual è il secondo grande fronte a cui accennava?
«Le azioni. In fondazione c’è tutta una varietà di azioni straordinarie. Ho cominciato a distinguere tra la gestione caratteristica e la gestione extracaratteristica quest’ultima non deve andare a penalizzare l’altra gestione. Cioè non deve assorbire risorse a discapito della gestione caratteristica. Non entro nel merito del pregresso ma sono state fatte scelte di gestione extracaratteristica discutibili. È chiaro che chi assorbe risorse deve generarle. Sulla gestione caratteristica, qui si stanno facendo cose molto belle, ho conosciuto persone e associazioni di grande valore. C’è un bell’elenco di progetti nella sua grande varietà che ancora un po’ fatico a distinguere tra fondi solidali, fondi di comunità, capacity building project. Però sulla gestione caratteristica, credo che un po’ di lavoro andrà fatto perché anche su sollecitazione della Fondazione Cariplo, dobbiamo spostare il mix di progetti dal modello a pioggia a progetti più aggreganti. In questa fase bisogna dotarsi di un linguaggio adeguato».
Nel recente passato la Fondazione Comunitaria del Varesotto è “scivolata” su un’operazione finanziaria rimettendoci parecchi soldi. Per evitare il ripetersi di queste situazioni cosa bisogna fare?
«All’epoca dei fatti non c’ero, quindi non entro nel merito della questione. Ribadisco che bisogna avere una linea di lavoro sulla gestione caratteristica che deve rientrare nel piano strategico 2025-2027. Ogni processo decisionale, alla base di scelte delicate, deve essere trasparente e fatto con i santi crismi, rispettando le regole e le finalità statutarie. Io non avevo messo soldi nei bond argentini, ma tutti hanno imparato dove stava la fregatura. Quando dobbiamo fare i conti con le risorse, bisogna aver presente il rispetto dell’istituzione, dello statuto e dei paletti di cui ho accennato anche nella gestione. Oggi si deve andare in una direzione istituzionale con trasparenza assoluta. Bisogna stare dentro quei confini e sapere che non si devono oltrepassare. Gli errori li fanno tutti, ma se tu fai un errore all’interno di un processo che è ben definito e codificato non devi temere nulla perché sei nella piena trasparenza».
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