Senza maschera e senza paura
È stato l'ultimo giocatore NHL a non indossare la protezione. Un fatto ancora più notevole visto che parliamo di un portiere: questa è la coraggiosa storia di Andrew Brown
(d. f.) Secondo episodio della seconda stagione della rubrica di Marco Giannatiempo, curata dalla redazione sportiva di V2 Media/ VareseNews e dedicata alla cultura dell’hockey su ghiaccio. Il protagonista della puntata è Andrew Brown, uno caparbio al punto di resistere anche alla logica. “Alla balaustra” ha cadenza quindicinale e viene pubblicata il primo e terzo (ed eventualmente quinto) lunedì pomeriggio di ogni mese. Gli otto racconti della prima stagione e il primo della seconda sono disponibili in calce all’articolo.
No, Andrew Brown non è un bravo ragazzo. Intendiamoci: non è neppure cattivo e forse il termine che più gli si addice è “irascibile”, uno di quelli che ci mette poco a perdere la calma. Che il suo animo sia vivace lo si nota si da piccolo, ma l’apice lo tocca tra i 14 e i 16 anni quando ha all’attivo un ventina di scazzottate, un centinaio di ore di lavori socialmente utili, qualche naso rotto (degli altri) e un sequestro di persona, quando tiene per un giorno e una notte un compagno di scuola segregato nella cantina dei genitori per un torto subito.
Motivo per cui lo Sceriffo della contea di Hamilton in Ontario, dove il “nostro” è nato nel 1945, prima lo punisce con altri lavori socialmente utili, poi lo tiene d’occhio. Ci pensa sempre suo padre a sistemare le cose: lui è Adam “The Flying Scotsman” Brown, che di mestiere fa il giocatore di hockey professionista e quindi è visto con un occhio di riguardo. Ha iniziato a Detroit, e con i Red Wings, dove vince nel 1943 la sua prima Stanley Cup, per proseguire poi con i Chicago Blackhawks, dove si mette in luce, chiudendo la carriera a Boston.
Anche Andrew vuole giocare a hockey, e decide quindi di seguire le orme del padre anche se il ruolo che sceglie è quello del portiere. Ha talento, ottimo senso della posizione e poi non ha paura. Veste anche lui come prima maglia quella dei Detroit Red Wings, per passare poi ai Pittsburgh Penguins: qui le statistiche calano, mentre emergere la ruvidità del suo carattere, visto che nel 1974 stabilisce il record di minuti di penalità in una singola stagione (60′): un bel primato per un portiere. Nonostante il suo ruolo limiti in termini di movimenti, quando ci sono problemi nella sua zona, lui si fa giustizia da solo. Il suo stile grintoso e parecchio scenico lo fa diventare l’idolo indiscusso dei tifosi, per i quali diventa un vero e proprio idolo.
Ma questa non è la storia di un portiere cattivo, tutt’altro. Siamo negli anni ’70 e l’hockey su ghiaccio sta vivendo un periodo di forti cambiamenti a favore della sicurezza dei giocatori: arrivano regole più stringenti su cariche e check, e una maggiore attenzione alle protezioni come guanti più lunghi per proteggere i polsi, caschi per i giocatori, e le maschere da portiere per gli estremi difensori. Ecco a lui questa cosa non piace: l’idea che qualcosa possa coprigli il volto proprio non gli va giù e decide di farne a meno. Lui continuerà a giocare senza maschera.
A poco servono gli studi che gli vengono sottoposti di esperti come Jim Hynes, grande storico dell’hockey su ghiaccio, che spiega in maniera dettagliata i contorni di una patologia che ha colpito i portieri nell’era pre-maschera prima degli anni ’60. I soggetti presentavano crisi nervose, disturbi d’ansia ed erano facili all’alcolismo e all’uso di sostanze stupefacenti, e naturalmente spesso fortemente sfigurati dagli incidenti di gioco. Andrew legge, ne prende atto, ma a lui la maschera continua a non piacere e in qualche intervista specifica che non fa parte del suo essere guascone sul ghiaccio, e che non vuole mostrare coraggio con quell’atto. Il motivo è da ricondursi al semplice fatto che una maschera, anche la migliore, sarebbe d’impiccio e che le due maschere, una nera e l’altra bianca che ad un certo punto gli fanno trovare in spogliatoio, sarebbero rimaste li.
A poco servono anche le pressioni della federazione (allora non esisteva un obbligo da regolamento) e dello stesso team che, oltre alla salute del giocatore, era al corrente che la percentuale di rischio legata ad un serio infortunio, in quel modo sarebbe aumentata vertiginosamente. Ci provarono pure con una penale sul compenso annuo del giocatore provando a toccare Andrew sui soldi, ma neppure questo contribuisce in modo alcuno a far cambiare la decisione del giocatore che, di fatto, diventerà l’ultimo giocatore della NHL a non indossare la maschera.
In più di un’occasione il portiere senza maschera e senza paura rischia grosso: moltissime volte carambole o dischi deviati gli colpiscono il volto, mai nulla di così grave con la pista lasciata una sola volta per farsi ricucire uno zigomo. Sei punti di sutura, borsa del ghiaccio e si ritorna in pista. Una volta però ha avuto molta paura, alla fine della stagione 1972: nella partita contro i Winnipeg Jets, Bobby Hull dotato di un tiro potentissimo fa partire il disco nascosto dal corpo di un compagno di squadra che sfiora la sua tempia e si infrange sulla traversa. Il rimbalzo sale talmente tanto in alto da sfiorare il soffitto del Boston Garden: questione di millimetri e quel disco gli avrebbe causato guai piuttosto seri, ma è andata bene, solo un grande spavento.
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