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La bomba

di Gian Paolo Zoni

Il racconto della domenica

Sulla banchina della metro di Loreto ce ne sono un centinaio. Siedo su una panca, grigia come il vapore che mi esce dalla bocca. Una di quelle cose si avvicina, trattengo il respiro e stringo forte la maniglia della ventiquattrore. Mi sorride. Sorrido anch’io. Sono diventato bravo in questo. Il lombrico di ferro e plastica arriva. Salgo sul vagone, è colmo di corpi frementi. La valigetta ben salda tra i piedi. Un colpo troppo energico e potrebbe esplodere. Sento delle grida stridule, acute. Nessuno sembra farci caso. Ma è un suono che riconosco e su di me ha l’effetto di una macchina del tempo.
Sono nato in estate, a luglio, stesso anno in cui mio padre si dileguò. Forse sparì a causa mia, strillavo disperato ogni qualvolta osava coccolarmi, allora mi adagiava tra le braccia di chi mi ha messo al mondo, l’unica persona che poteva sfiorarmi. A scuola me ne stavo in disparte, non volevo amici. Leggevo molto e non uscivo mai, vivevo con i libri e mia madre.
Non tollero essere toccato. Mi schifa il solo pensiero. Provereste anche voi la stessa cosa, se sapeste che gli umani non sono umani ma colonie di vermi racchiusi in un involucro di pelle. Mamma lo diceva: il mondo è marcio.
Quando morì, avevo vent’anni, una pletora di esseri ingobbiti si riversarono nel nostro salotto. Tutti a dire mi dispiace, fatti forza e mi prendevano le mani tra le loro con gli occhi umidi. Quel giorno indossavo un paio di guanti neri di pelle, non li toglievo nemmeno per andare a pisciare. E continuavano ad afferrarmi per le mani, fatti forza, mi dispiace.
La casa era diventata una conchiglia vuota. Comprai un computer e viaggiai nel web. Non immaginate cosa si può scovare in quell’universo. Io trovai istruzioni per fabbricare una bomba.
Il treno adesso sfreccia nelle gallerie. Individuo la fonte delle grida. Piange e strilla, protende le piccole mani verso il mio viso. Quasi in trance mi sfilo i guanti e gli do un buffetto sulla guancia. Smette di piagnucolare, mi sorride. Inarca la schiena per allungarsi, la madre lo trattiene, lui si divincola. Un tizio mi urta. Il bimbo sonda il mio mento, carezza le labbra, il naso. Un vecchio mi afferra il braccio e lo sposta per passare. E non sento nulla. Nessuna repulsione, ribrezzo o disgusto. E infine comprendo. Non vi sono differenze tra me e loro. Che sia umano o altro non importa. Mi lascio toccare abbandonando così il luogo desolato in cui ho vissuto finora per inoltrarmi in questo misterioso mondo. E sono raggiante. Un ragazzo mi strattona e la nuova versione di me stesso si gira per salutarlo. Esulto, e do un calcio alla valigetta. Nemmeno il tempo di dire ciao.

Racconto di Gian Paolo Zoni (www.ilcavedio.org).- Tratto da “I cinque sensi sono sei”, Tatto. Edizioni IL CAVEDIO. – Photo by usersofamonkez on Freeimages.com

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Pubblicato il 07 Gennaio 2024
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