“A Saronno grande attenzione per il paziente oncologico. Ai giovani medici dico, ascoltate i vostri pazienti”
Negli ultimi giorni di lavoro il dottor Verusio ricorda la sua lunga carriera, gli sforzi per creare il primo reparto di oncologia della provincia e le difficoltà del Covid. Nel saluto una critica ai colleghi che hanno lasciato perché non hanno avuto fiducia nel rilancio dell'ospedale di Saronno
É nel giorno del suo 70esimo compleanno che il dottor Claudio Verusio ha svolto il suo ultimo giorno di lavoro come direttore della Struttura complessa di Oncologia medica all’ospedale di Saronno. Al nosocomio di piazza Borella dal 2002, in 21 anni di attività professionale qui ha costruito ex novo il dipartimento oncologico, prima del covid uno dei fiori all’occhiello dell’ospedale saronnese.
Laureato in Medicina e Chirurgia all’università di Pisa nel 1982, ha conseguito la specializzazione in Oncologia all’università degli Studi di Milano nel 1986, dove poi nel 1990 si è specializzato anche in Radiologia medica e Radioterapia Oncologica. Dopo alcuni anni di lavoro all’Istituto Tumori di Milano e al San Raffaele, arriva a Saronno. «Dal direttore generale dell’azienda ospedaliera di Busto Arsizio mi fu offerto di aprire un reparto di oncologia da zero – ricorda il dottor Verusio -. Quello di Saronno è il primo reparto di oncologia della provincia di Varese di un ospedale pubblico, perché non c’era né a Busto Arsizio né a Varese».
Professore quando ha deciso di volersi specializzare nell’ambito oncologico? «Ero studente all’università di Pisa e frequentavo lì la clinica medica, dove seguivo soprattutto linfomi e leucemie. In quel periodo avevo letto un libro sui linfonomi del professor Bonadonna, che aveva una fama internazionale. Casualmente un giorno lessi sulla bacheca dell’università dell’offerta di alcune borse di studio in Oncologia medica a Milano, proprio con Bonadonna di cui avevo appena letto il libro. Ottenni la borsa e venni a Milano».
È contento di andare in pensione? «Non sono contentissimo, perché è difficile riconoscere di avere 70 anni, quando te ne senti 50. Vado in pensione con qualche rammarico e anche con piacere. Mi dispiace perché qui a Saronno avevamo messo su un reparto di oncologia di livello, con una certa visibilità e rilevanza nazionale. Qui abbiamo sviluppato una grande attenzione verso il paziente, perché ho sempre cercato di impostare il reparto in modo che il paziente fosse davvero al centro. Siamo l’unico ospedale in Italia che ha uno psicologo assunto come dirigente del nostro reparto. Dobbiamo ricordarci dell’importanza dell’aspetto umano, perché il medico per il 50% è un tecnico e per il 50% è un umanista; quest’ultima parte purtroppo nella medicina moderna è molto poco sviluppata. Quando parlo con gli studenti della scuola di specialità elogio sempre la loro preparazione tecnica, che è superiore a quella di quando noi studiavamo, perché la medicina ha fatto progressi. Ecco, questo li rende dei bravi tecnici della medicina, però diventare medico è un’altra cosa. È necessario sviluppare un’attenzione umanistica nei confronti dei pazienti e questo aspetto l’università e le scuole di specializzazione lo insegnano poco».
Le dispiace quindi lasciare? «Sì, perché abbiamo costruito un reparto che funzionava bene, poi c’è stato il Covid ed è stata una tragedia, con l’ospedale di Saronno che è stato chiuso a tutte le specialità. Avevamo circa 500 pazienti in terapia e non potevamo abbandonarli, ci siamo trasferiti a Busto Arsizio. Poi siamo rientrati qui a Saronno e oggi stiamo cercando di rilanciare il reparto in un ospedale che purtroppo fa un po’ fatica, anche se ci sono importanti promesse da parte di Regione Lombardia e dell’assessore regionale Guido Bertolaso, che hanno promesso un rilancio dell’ospedale. Quindi lasciare in questo momento in cui ci dovrebbe essere il massimo impegno e sforzo per ricostruire quello che avevamo fatto prima del Covid, un po’ mi dispiace».
Quale invece l’aspetto positivo di andare in pensione? «Potrò dedicarmi con ancora più impegno a quella che è la mia seconda attività, che svolgo da tanti anni ma in maniera marginale. In centro a Milano ho uno studio di psicanalisi, che è sempre stata una mia grande passione, a cui mi sono sempre dedicato la sera, dopo il lavoro in ospedale. Ora potrò farlo a tempo pieno».
Qual è stato il momento più importante nella sua carriera professionale? «Il momento più entusiasmante è stata l’esperienza all’Istituto dei Tumori di Milano, che in quel momento era uno dei cinque istituti più importanti al mondo. Gianni Bonadonna era uno degli oncologici più famosi. Quando sono arrivato lì come borsista, ho trovato un ambiente internazionale; veniva gente da tutto il mondo a vedere come si lavorava nel reparto di Bonadonna. Quindi lì ho fatto una scuola stupenda».
Quale invece il momento più drammatico? «Il periodo del Covid sicuramente, perché tutto il lavoro fatto per costruire questo reparto è stato azzerato in una giornata. L’ospedale di Saronno era diventato un ospedale Covid, chiuso alle specialità. Abbiamo dovuto arrangiarci andando a lavorare a Busto Arsizio. Da che eravamo in 7, ci siamo ritrovati in 3 a gestire tutti i nostri pazienti malati di tumore. Avevamo circa 500 pazienti oncologici in cura che non potevano essere abbandonati, quindi abbiamo lavorato tantissimo per questo obiettivo e siamo riusciti a non rinunciare ad assistere neanche ad un paziente oncologico. Tra l’altro ho trovato nella direzione dell’azienda una grande disponibilità ad aiutarmi a trovare uno spazio nell’ospedale di Busto dove potessimo lavorare. Un ringraziamento va anche a due associazioni, la Saronno Point Onlus e la Lilt, che ci hanno dato un grande aiuto».
Oggi il dipartimento è tornato a pieno regime? «Stiamo lavorando per riportare tutto il reparto al livelli di prima, sia nell’ambito della clinica, della ricerca e dell’accoglienza dei pazienti. Se c’è una cosa che mi dispiace è che a distanza di tre anni l’ospedale di Saronno stia ancora pagando le conseguenze del Covid. Una tiratina di orecchie devo farla però anche ai colleghi, perché molti di loro sono scappati da qui pensando che l’ospedale verrà chiuso; non è così, non sarà chiuso e Bertolaso ci ha promesso che verrà rilanciato. Se ci avessero creduto tutti, come lo hanno fatto quelli che sono rimasti, forse avremmo rilanciato l’ospedale prima».
Ha un consiglio da dare ai giovani medici che si approcciano a questa professione? «La specialità di oncologia oggi è la più affascinante di tutte dal punto di vista tecnico e scientifico; i giovani si innamorano dello studio dell’oncologia, del dna e delle mutazioni genetiche. Incontro ragazzi con una preparazione tecnica meravigliosa. Questo però crea un piccolo problema, perché i giovani medici tendono a vedere davanti a loro una mutazione genetica e non una persona. Non bisogna mai dimenticarsi che si ha a che fare con persone come noi, che stanno vivendo un momento di fragilità, dovuta al fatto di avere una malattia importante. Quindi invece di avere lo sguardo basso sul computer, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia i pazienti e di ascoltarli».
Un consiglio da dare invece a tutti i nostri lettori su come possiamo mantenerci in salute? «Spendiamo tantissimi soldi per la diagnostica, le terapie e gli esami di screening, cioè la prevenzione secondaria. Invece si fa pochissima prevenzione primaria, cioè fare in modo che il tumore non ti venga. Le cause principali per cui si sviluppa questa malattia le conosciamo, sono il fumo di sigaretta, le condizioni atmosferiche e l’alimentazione scorretta. Dovremmo quindi stare attenti ad evitare quegli alimenti che sono cancerogeni, ad esempio evitando proteine animali sottoposte ad alte temperature, ridurre gli alcolici, evitare il sovrappeso e fare attività fisica. Se conducessimo una vita un po’ più attenta, potremmo prevenire di almeno il 50% lo sviluppo di tumori».
Un saluto all’ospedale di Saronno? «Ho lavorato in questo ospedale con grande piacere, ho avuto tantissime gratificazioni. Spero di poter dare qualche aiuto in futuro, anche dall’esterno. Poche settimana fa tutti i medici e gli infermieri di questo reparto e i primari del dipartimento di cui sono direttore hanno mandato delle lettere al direttore generale chiedendo che io rimanessi. Il direttore generale mi ha fatto i complimenti, ma chiaramente mi ha detto che non è possibile. Insomma, sento tanto affetto intorno a me, ma anche io ho tanto affetto per questo ospedale».
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