“Quando c’è la volata, sento la stessa tensione di quando correvo”
Eugenio Alafaci, 30 anni, ha lasciato il ciclismo agonistico e ora è il massaggiatore del campione europeo Nizzolo, suo grande amico. Ecco come è cambiato il suo ruolo in gruppo
Esattamente otto anni fa – era il 19 maggio 2013 – una promessa del ciclismo varesino coglieva in Olanda la sua prima (e unica) vittoria tra i professionisti. Eugenio Alafaci, classe 1990 da Carnago, trovò la volata giusta sul traguardo della Omloop der Kempen e si impose davanti a uno stuolo di belgi e olandesi sul traguardo di Veldhoven.
Un successo che lo mise ulteriormente in luce, tanto che nella stagione successiva Eugenio lasciò la Leopard – formazione “di sviluppo” di quella che oggi è la Trek-Segafredo – ed entrò a far parte della squadra principale, nel World Tour, accanto a uno dei suoi più grandi amici dentro e fuori il mondo delle corse, l’attuale campione europeo Giacomo Nizzolo. E proprio accanto a Nizzolo, oggi, Alafaci è di nuovo al Giro: non più per tirare le volate allo sprinter brianzolo ma per aiutarlo a rilassarsi. Lasciato il ciclismo pedalato (per ragioni fisiche), il corridore di Carnago è infatti diventato il massaggiatore di Nizzolo e lo ha seguito nell’attuale formazione, il team Qhubeka-Assos che proprio il 19 maggio ha festeggiato la vittoria nella tappa di Montalcino con lo svizzero Schmid.
Da uomo-chiave per tirare la volata a “custode” dei muscoli e confidente di un campione del calibro di Nizzolo. Come è cambiato ruolo di Eugenio Alafaci nel mondo del ciclismo?
«Sono due “funzioni” molto diverse. Sono contento di avere intrapreso questa strada, un lavoro che mi piace e che mi fa sentire utile alla squadra sia quando ho i corridori sul lettino dei massaggi, sia per gli altri compiti che devo svolgere durante i giorni di corsa. Però è chiaro che la prestazione del corridore è centrale e determinante, quella dello staff serve proprio per aiutare l’atleta ad arrivare al risultato. Però c’è un momento del giorno in cui la tensione torna a essere quella di un tempo».
Ce la descriva.
«Quando si avvicina il traguardo, sento pressione e sensazioni simili a quelle che avvertivo in gruppo. A maggior ragione, se è previsto un arrivo in volata e Giacomo può puntare al risultato: in quel momento, vivo come se fossi in sella».
Oggi però il suo ruolo è proprio quello di aiutare a stemperarla, la tensione.
«Esatto, e come ho detto mi piace. D’altra parte questa parte di lavoro la svolgevo già quando correvo: sono stato per anni il compagno di stanza di Giacomo, siamo molto amici e so come sostenerlo. Lui talvolta si sottovaluta, ha bisogno di una sferzata e sono pronto a dargliela. Poi sul lettino dei massaggi è necessario ascoltare i corridori, aiutarli a recuperare, stare loro vicini. Oltre a Nizzolo, al Giro, mi occupo anche del tedesco Walscheid».
La vittoria in Olanda nel 2013Le pesa aver dovuto lasciare il ciclismo agonisitico?
«Per il problema fisico che ho avuto, pedalare è un’azione che mi causa fastidio e dolore e ciò accade nonostante le operazioni a cui mi sono sottoposto negli anni scorsi. Quindi a questo punto meglio evitare. E poi, per ragioni personali, ho capito che ci sono cose ben più importanti di quella che era una passione, è diventato un lavoro, ma è pur sempre una attività che viene dopo gli affetti. Sono però molto contento di avere ritrovato l’ambiente del ciclismo, che è ricco di persone che mi piacciono e a cui voglio bene. L’unico limite è la lontananza da casa per periodi lunghi: ero già abituato ma pesa sempre un po’».
C’è da dire che lei ha avuto una buona carriera: cinque anni nel World Tour con una squadra importante e un lavoro apprezzato. E la partecipazione a diversi Giri d’Italia.
«Senz’altro, su questo non c’è dubbio. Mi resta solo un po’ di dispiacere quando vedo le vittorie di atleti con cui ho gareggiato spesso e che erano al mio livello. Per via del mio problema all’arteria iliaca, durante la mia carriera non sono quasi mai stato al 100%. Magari mi sarei potuto togliere qualche soddisfazione personale».
Ci descriva la sua giornata al Giro
«Si comincia di buon mattino, perché la sveglia suona circa due ore e mezzo prima di quando lasciamo l’albergo. Prima di tutto facciamo un controllo sui materiali ed effettuiamo la pulizia interna delle vetture, mentre a quella esterna pensano i meccanici. Poi prepariamo le borracce e tutto il resto e ci spostiamo sulla partenza, dove appunto io ho l’incarico di rifornire di acqua i corridori. Quindi salgo in macchina e mi occupo del rifornimento di metà gara, terminato il quale mi fiondo al traguardo, raggiungo il pullman della squadra, prendo le borse che ci servono all’arrivo e con quelle mi porto sul traguardo per dare un primo ristoro ai ragazzi. I massaggi arrivano dopo, al rientro in hotel: ogni massaggiatore si occupa di due atleti e così finiamo poco prima di cena. Dopo mangiato ultimi controlli su quel che serve il giorno successivo, e via».
Anche tra i componenti di uno staff, il concetto di gruppo è fondamentale?
«Decisamente, soprattutto nelle grandi corse a tappe. Restiamo insieme per quasi un mese, con un impegno quotidiano e per di più in spazi ristretti come un pullman o un albergo. Se c’è tensione tra lo staff, anche i corridori se ne accorgono e ne risentono. E non hanno bisogno di negatività, visto l’impegno che devono mettere ogni giorno in sella».
I team ciclistici sono ormai delle vere multinazionali anche in termini di persone e la Qhubeka-Assos non fa eccezione. Come si trova all’interno di questa struttura?
«Molto bene, devo dire. È vero, la nostra è una squadra di matrice sudafricana con uno staff prevalentemente formato da “latini”, italiani e spagnoli, ma anche con diversi belgi che però io definisco atipici. Con noi hanno imparato il modo di fare e di pensare “mediterraneo”, ci siamo integrati molto bene e stiamo lavorando con profitto, tutti insieme in quell’ambiente ciclistico che come ho detto, mi mancava e sono felice di aver ritrovato».
SPECIALE GIRO D’ITALIA
In collaborazione con Bieffe Cicli e con La Bottega del Romeo
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