Mediterraneo
di Gianluca Fiore
Visto dal ponte, questo braccio del Mediterraneo ha l’aria di un animale che sornione respira, senza fretta. Sicuro che prima o poi digerirà tutto quello che arriverà a contatto con le sue acque. Il vento di dicembre fa montare le onde, inizia una nuova giornata a bordo della Aquarius. Guardo la superficie del mare, e cerco di immaginare il tappeto di persone che giace sul fondale. Naufraghi. Uno li può chiamare migranti, ma non sono solo questo. Tutti hanno diritto ad essere aiutati, e salvati. Questo dice la legge del mare, che è anche la legge dell’uomo.
Uno dei ragazzi della Aquarius esce di corsa, hanno avvistato un gommone in difficoltà, l’ennesimo di questo mese maledetto. Più le condizioni sono sfavorevoli, e più si mettono in mare per una traversata che è peggio di una roulette russa. Dieci partono, uno arriva.
Il gommone cominciamo a vederlo, o dovrei dire a intuirlo, dopo mezz’ora di navigazione. Una massa di braccia e di gambe si muove in modo disordinato sul pelo dell’acqua. Vestiti variopinti compaiono e scompaiono al ritmo delle onde, una macabra danza di chi vuole scavalcare gli altri nel tentativo di arrivare primo a toccare la Aquarius. Cominciamo il trasbordo, donne in lacrime per i figli, odore di gasolio, merda, uomini che spingono, pianti non so se di gioia o di dolore.
E poi i morti, come sempre. Lo sappiamo bene, dopo anni di questa vita. I bambini. I vecchi. Il mare è una falce, fa fuori chi non ce la fa. Senza chiedere. Senza pensare a quello che potrà fare quel bambino, o cosa potrà insegnare quel vecchio. E poi le donne incinte, la promessa di un futuro infranta in un’acqua gelida. La disillusione di un amore, di una promessa.
Li issiamo a bordo, li curiamo, li nutriamo. Il ventre della Aquarius li scalda, una chioccia in mezzo al mare. Scappano dal loro Paese. Fuggono dalle loro radici. A volte ci dovremmo soffermare sull’enormità di tutto questo.
Cominciamo a intervenire sullo stato di salute. Dobbiamo lavorare rapidamente, siamo un’ambulanza con il primo ospedale utile a giornate di navigazione. Dopo qualche ora di lavoro convulso e senza sosta, la situazione sembra stabilizzarsi. E tiriamo il fiato. Una sigaretta, un bambino che ti si accoccola sulle gambe e dorme, magari sogna il padre. Una donna che ti guarda sussurrandoti cose che non comprendi, ma capisci.
Alcuni si inginocchiano davanti a un vecchio, che parla loro a voce bassa, una breve litania appena sussurrata. Tocca le teste, e da una piccola scatola tira fuori delle ostie. Un prete. Una Messa improvvisata. Poi ricordo, oggi è Natale. Anche qui, lontano dal modo civile. E accarezzo i capelli di questo scricciolo che ho sulle gambe.
Racconto di Gianluca Fiore
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