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“La produzione di mascherine non si improvvisa”

Il presidente di Univa Roberto Grassi parla di Covid-19 war. «Molte aziende che hanno riconvertito sono in buonafede ma solo le mascherine che rispettano gli standard Ffp2 e Ffp3 sono quelle che riparano le vie aeree»

univa

Roberto Grassi, presidente di Univa, come tutti è molto preoccupato. L’emergenza sanitaria scatenata dal coronavirus sta mettendo a dura prova tutte le nostre certezze. Per un imprenditore, poi, oltre alla preoccupazione per la salute dei propri cari, c’è il pensiero per i collaboratori, spesso considerati alla stregua di famigliari. «In questa fase drammatica  – sottolinea Grassi – le imprese del territorio, sia piccole che grandi, hanno tirato fuori tutto il loro senso di responsabilità sociale. Tutti i livelli si sono attivati, persino gli ex dipendenti ci chiedono “che cosa possiamo fare per voi”, magari rispolverando una vecchia macchina da cucire».

Già nella crisi del 2008 si era detto che il mondo non sarebbe stato più come prima. A distanza di dodici anni sentiamo ripetere ancora questa frase. Che tipo di mondo sarà quello dopo la pandemia?
«Oggi siamo in un tempo di guerra, non ci sono altri termini per identificare questa fase: è la Covid-19 war. Purtroppo non sappiamo ancora quando finirà e, a seconda della durata di questa emergenza, dipenderà la sopravvivenza del sistema. Se riusciremo a contenerla entro il mese di maggio ci saranno danni importanti ma governabili o da soli o con l’aiuto dell’Europa. Ma se il problema dura ben oltre lo scenario di maggio, i tempi di recupero saranno lunghi. Ed è questo secondo scenario che ci preoccupa di più».

Come si fronteggia questa guerra?
«Bisogna mantenere la calma, avere pragmatismo e intervenire. Dobbiamo essere resilienti e veloci senza ostacoli burocratici. La mia preoccupazione è riuscire a portare a fine periodo di crisi il numero più alto possibile di aziende ancora in piedi. Il rischio è che alla riapertura non siano tutte in grado di ripartire e una volta chiusa un’azienda, non la si recupera più. Per evitarlo noi stiamo rivalorizzando l’importanza di essere uno dei principali paesi manifatturieri d’Europa. In questa crisi mondiale è importante mantenere aperte le nostre filiere ed è importante che lo facciano anche le altre nazioni europee: ciascuno deve avere la propria filiera di servizi essenziali. Anche se con i motori al minimo si deve cercare di galleggiare».

A che punto è la raccolta fondi che avete avviato una settimana fa per sostenere gli ospedali?
«Procede molto bene sia per la velocità che per l’entità dei contributi raccolti. Colgo questa occasione per ringraziare tutti quelli che hanno aderito e tutti quelli che aderiranno entro il 3 aprile. Una reazione così immediata ci ha permesso di acquistare subito i beni che ci sono stati segnalati dalle Asst del territorio. Un atteggiamento che va controcorrente rispetto al sindacato che invece ha proclamato lo sciopero. Vorrei ricordare che le imprese rimaste aperte lavorano a ritmo ridotto e rispettano il protocollo sottoscritto dalle parti sociali. I posti di lavoro per le produzioni essenziali sono messi in sicurezza».

In questo periodo il tessile della provincia è al centro dell’attenzione dei media nazionali per via della necessità di mascherine. Molte aziende si sono dette pronte a riconvertire la propria produzione e sono diventate un caso nazionale. 
«Su questo tema sono prudente. Faccio un plauso alle tante aziende che si sono rese disponibili a riconvertirsi, però bisogna fare molta attenzione a consegnare mascherine che siano realmente protettive per evitare una falsa sensazione di sicurezza nelle persone. Molte aziende che si sono fatte avanti sono in perfetta buonafede. Quando si parla di questi dispositivi di protezione individuale bisogna andare un po’ più in profondità e capire che tipo di utilizzo bisogna fare. Se i volontari che fanno servizi essenziali non hanno una mascherina adatta rischiano di infettarsi e diventare veicolo di contagio. Quindi bisogna dire con chiarezza che solo le mascherine che rispettano gli standard Ffp2 e Ffp3 sono quelle che riparano le vie aeree. La mascherina di tipo chirurgico da sola non protegge la persona che la indossa ma evita che i pazienti siano contagiati dai medici. La nostra scelta è portare avanti un sistema di certificazione con il Politecnico di Milano che si è reso immediatamente disponibile e a costo zero per analizzare tutti i materiali che gli inviamo».

Le conoscenze tradizionali del settore tessile e le nuove tecnologie possono dare delle risposte interessanti in questa fase?
«La sfida di questo momento è mettere il dna del territorio al servizio della produzione di tessuti tecnici che riescano a dare lo stesso livello di protezione dei tessuti non tessuti. Il tessuto tessile ha degli interspazi che fanno passare il virus, parliamo naturalmente di micron. Partendo dalla nostra tradizione, vogliamo  creare tessuti tecnici che riescano a fermare il virus, ma per avere questa qualità il tessuto deve essere trattato con finissaggi particolari. Comunque abbiamo già consegnato al Politecnico di Milano più di dieci campioni per la certificazione e ci siamo rivolti anche a centri esteri. Cerchiamo di valorizzare la filiera del tessile del territorio mettendo in campo tutte le nostre risorse di ricerca e sviluppo, compreso il prezioso lavoro che fa il Centro tessile cotoniero» .

Qual è il messaggio corretto che deve passare sulle mascherine?
«Attenzione alle false informazioni, la persona deve essere protetta e non invece pensare di esserlo quando non lo è. Questi dispositivi sono importanti per vincere la guerra in corso. Sono 30 anni che noi li produciamo e non ci si può certo improvvisare in un sottoscala».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it
Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.
Pubblicato il 27 Marzo 2020
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